È giovedì. Il sole che ci ha accompagnato in questa settimana di campagna sanitaria scotta anche oggi. Nel cortile dove ci siamo fermati per visitare una coppia di anziani, continuano ad arrivare per passaparola parenti, amici, vicini di casa. Mi sposto all’ombra della casa per proteggermi dai raggi che con insistenza mi scaldano la fronte.
Si siede davanti a me una ragazza che avrà circa la mia età. È molto bella e i tratti delicati del viso sono in equilibrio con la voce sottile che le esce di bocca quando inizio a chiederle come si chiami e quanti anni abbia. Estefani, 23 anni, trascorre le sue giornate ad occuparsi dei due figli piccoli e a lavorare in campagna. Dopo aver controllato i parametri iniziamo a visitarla e un elemento in particolare cattura la mia attenzione: ha da circa dieci giorni un dolore ben localizzato alla mandibola, ma non ci sono nè tumefazioni nè asimmetria e la cute è rosea, non ci sono segni esterni. Le chiedo che sia successo. “Sono inciampata e caduta nel campo” mi risponde. Proseguo con la visita prescrivendo i farmaci necessari, ma la mia testa rimane ferma a quella risposta poco convincente e data di sfuggita. Le consegno la ricetta e la guardo un’ultima volta negli occhi. “Estefani, dimmi la verità.. come hai fatto a farti male? Sei caduta o qualcuno ti ha colpita?”. Abbassa lo sguardo e resta in silenzio. Riformulo la domanda e questa volta la risposta arriva di getto, senza filtri: il marito una sera di dieci giorni prima è tornato a casa ubriaco, come spesso capita, e l’ha picchiata. Accolgo l’affermazione quasi senza stupore, il suo sguardo basso purtroppo mi aveva già risposto. Non è la prima volta che succede mi dice, e dentro di me penso subito che non sarà l’ultima.
Il senso di inadeguatezza e la paura di dire qualcosa fuori posto mi assale. Non conosco bene il contesto in cui mi trovo e le vie di uscita che offre, non ho la possibilità dopo questa visita di tornare da questa donna, non so se le soluzioni che ingenuamente le suggerisco siano attuabili o vane. Doso le parole chiedendomi se non facciano altro che far crescere in lei il senso di ingiustizia e di frustrazione. Sono costretta di tanto in tanto a distogliere lo sguardo per nascondere gli occhi che mi stanno diventando lucidi: ha senso Estefani che io ti dica che un uomo che ti picchia non ti ama? Come posso sapere che ti ha spinta a sposarti così giovane e allontanarti dalla tua famiglia? Avevi alternative? Non riesco a fare a meno in questo momento di mettere a confronto la mia vita con la tua, quasi coetanee e con dei destini così diversi.
Le chiediamo dove abitino i suoi genitori, se abbia qualche amica con cui si può confidare o un altro luogo dove andare. “Quando tuo marito torna ubriaco devi prendere i tuoi figli, uscire di casa e rifugiarti da un’amica”. Non ha amiche qui, si è trasferita da pochi anni; la famiglia vive in un’altra comunità, troppo lontana da raggiungere a piedi. Non ha un cellulare con il quale poter comunicare con i genitori e quando il marito torna alla sera e lei capisce che ha bevuto, ormai è troppo tardi per poter uscire di casa. “Non puoi andare al centro di salute e fermarti con la responsabile?” Ci dice che questa potrebbe essere una soluzione, che ha confidenza con la Licenciada Marta e che le ha già raccontato della sua situazione. Marta ha promesso che avrebbe parlato con il marito ma ancora non ha trovato il tempo per farlo. La esortiamo a non arrendersi, a continuare a chiedere aiuto e a mettere davanti a tutto il suo benessere e quello dei suoi figli. “Pensa a te, pensa a tuoi bambini..” Lo potrà mai fare?
La salutiamo cercando di trasmetterle in uno sguardo tutta la tenacia e la speranza di cui siamo capaci, dicendo che parleremo anche noi con i responsabili del centro di salute. Ci ringrazia in maniera sincera e si allontana stringendo in mano l’antidolorifico che le abbiamo dato.
A fine giornata ritorniamo al centro di salute per consegnare i documenti delle visite fatte. Parliamo con Marta, le riferiamo il caso di Estefani e discutiamo di come il centro di salute la potrebbe aiutare. La sua risposta è disarmante. “La conosco sì, ma non mi ha mai parlato di questi problemi. Io credo sia lei la ribelle, potrebbe essere lei a picchiare il marito”. Sento un fuoco accendermisi dentro e mi devo trattenere per non risponderle male. Mi cade sulle spalle il peso di una società che non si stupisce e considera lecito il fatto che la violenza venga usata per mettere in riga una “donna ribelle”. “Io non so se lei colpisca il marito- rispondo- quello che so è che la donna che ho visitato oggi è stata vittima di violenza e che probabilmente lo sarà ancora. E che ha bisogno di aiuto.”
Sulla via di casa, abbandono il mio corpo al sedile dell’auto. Sono amareggiata, arrabbiata, mi sento totalmente impotente. “Chiara, noi oggi abbiamo fatto la cosa più importante che potevamo fare – mi sussurra la mia collega infermiera Maria- le abbiamo, anche se solo per un momento, prestato attenzione, abbiamo dato ascolto al suo problema.. l’abbiamo guardata negli occhi dicendole che il suo valore come persona è inestimabile, che non merita il male che riceve”. So che ha ragione. So che arrenderci ci fa stare peggio che continuare a lottare e che dobbiamo cercare degli spiragli all’interno dei quali agire per migliorare le cose. Lo dobbiamo a Estefani, ai suoi 23 anni e al mondo che lascerà ai suoi figli.
Testimonianza raccolta dalla dottoressa Chiara Scotton durante la campagna sanitaria di novembre 2021, durante il suo anno di Servizio Civile Universale.