La macchina avanza sulla strada, il fascino è tanto, come anche l’inquietudine. Pensare che c’erano degli uomini, dei prigionieri, a scavare queste gallerie.
Siamo già alla terza campagna da quando sono arrivata in Perù, le azioni cominciano già a diventare automatiche, l’organizzazione anche, quello che non diventa meccanico è il mio rapporto con i campesinos che andiamo a visitare.
Penso se abbiamo preso tutto, se le casse sono piene; la cosa più difficile qua è che se ti dimentichi qualcosa non puoi fare un “salto” in farmacia o nel magazzino a prenderlo, se non ce l’hai, non ce l’hai, ma come non ce l’hai tu non ce l’hanno nemmeno loro, e questo è un problema, perchè la maggior parte delle volte non hanno neanche la possibilità di reperirlo.
Iniziano le visite, su e giù dalla macchina, dentro e fuori dalle case, i pazienti si susseguono e ogni sera io e Chiara facciamo il punto della situazione; cosa abbiamo utilizzato maggiormente, cosa manca, cosa abbiamo in abbondanza; e inevitabilmente poi finiamo sempre per parlare dei casi che più ci hanno segnato. È diventata ormai un’abitudine, dobbiamo come svuotare la testa e il cuore per il giorno dopo, per riempirlo nuovamente.
Aspetto questo momento perchè durante il giorno non mi posso permettere di farlo, non riuscirei a concentrarmi. Ed è difficile, è difficile pensare a quanto hanno alcune persone e a quanto poco ne hanno altre: da questi bambini che non hanno mai mangiato una pizza, alle donne vittime di violenza che pensano sia tutto normale e chiedono una visita solo per un antidolorifico, a questi vecchietti che vivono abbandonati a se stessi in condizioni inimmaginabili.
Questa campagna sanitaria è stata dura a livello emotivo, non so se più dura delle altre o meno, le sere erano piene di emozioni e pensieri che solo due ragazze di ventisei anni possono avere, con la vita davanti, senza il cinismo della vita adulta.
La cosa peggiore, quello a cui torniamo sempre nelle nostre conversazione, è l’impossibilità di cambiare la propria condizione. Non penso sia una cosa negativa rimanere tutta la vita in un villaggio a lavorare la terra, penso che debba esserci la possibilità di scelta, di scegliere questa vita, non è giusto che venga imposta dalla condizione sociale della famiglia o perchè non si conosca una vita alternativa.
Poi però ripenso alle parole dello scrittore Jean d’Ormesson “Ognuno è prigioniero della sua famiglia, del suo ambiente, della sua professione, dei suoi tempi” e quindi mi chiedo: esiste davvero qualcuno di veramente libero?
Maria De Nadai, infermiera in SCU