Lontano dai sentieri battuti da migliaia di turista che con lo zaino in spalla percorrono il Peru affascinati dalle sue bellezze naturalistiche e dai sui siti archeologici di fama internazionale, esiste una realtà molto diversa, più lontana, più vera, più autentica; Apurimac. In quechua, Apu Rimaq significa “Dio che parla” ed è forse Dio o la Terra Madre per lui che ci sta parlando invocando il nostro aiuto. Nella regione di Apurimac che si compone di comunità di campesinos che vivono quasi esclusivamente di agricoltura, completamente isolati dal mondo, l’assenza di ospedali e/o centri specialistici ma soprattutto l’assenza di educazione sulle nozioni più basiche di igiene e di salute è assordante.
Ed è proprio per questo che Apurimac Onlus con le sue campagne sanitarie itineranti interviene per educare, sensibilizzare e curare chi ha più bisogno, difendendo quei diritti come quello alla salute e all’educazione imprescindibili e inviolabili dell’uomo. Ma come si organizza una campagna sanitaria? Sembra facile pensare ad un team di medici, infermieri, laboratoristi, farmacisti che con professionalità e competenza si mobilitano per portare il loro sostegno in queste piccole comunità ma ben più difficile è immaginare tutto il lavoro che c’è dietro, che inizia ben prima della campagna vera e propria; dall’approvvigionamento di farmaci alla rendicontazione, dalla spesa per il cibo alla manutenzione del camion. Un lavoro continuo e costante che inizia prima e continua dopo la partenza.
Si parte alle prime luci del giorno, italiani e peruviani sono equamente divisi tra il camion e i due pick up Toyota, c’è chi è alla sua prima esperienza, chi invece è più temprato e preparato. Impieghiamo due giorni per raggiungere la prima comunità, Simpe. Le strade sono tortuose, impervie, salgono e scendono quello che è considerato il canyon più profondo del mondo. Nonostante la stanchezza, risulta difficile prendere sonno quando sei sballottolato di continuo e quando l’adrenalina è ancora alta. La fatica, pero viene appagata dalla bellezza dei paesaggi e dalle chiacchiere con i compagni di avventura. Si arriva, si scarica il camion, si cucina, si va a letto. Dormiano, accampandoci molto spesso in grandi sale municipali con materassini, sacco a pelo e coperte, molte coperte. Umidità e muffa ci avvolgono ma siamo troppo stanchi per farci caso. La sveglia suona alla prime luci del sole, ognuno con i suoi tempi si prepara ad affrontare la giornata lavorativa che inizia con acqua gelida e una ricca colazione. Esplorando il primo centro di salute ci rendiamo conto di quanto possa essere importante il nostro intervento. Eccoci pronti ad allestire il camion con la farmacia e il laboratorio mentre nel frattempo, si organizza il triage e si cominciano le prime visite. Già in mattinata una folla di persone si accalca per annotarsi, scegliendo tra il servizio medico o dentistico in base ai propri bisogni.
Le giornate trascorrono tra pazienti che passano dal medico, al laboratorio(all’occorrenza) e infine alla farmacia dove sempre gratuitamente possono beneficiare dei farmaci prescrittigli. Lavorando nel laboratorio, subito appare chiaro che la maggior parte delle malattie sono causate dal poco igiene, dall’uso di acqua contaminata e da un’alimentazione sbagliata. Molti, infatti, sono i casi di parassitosi, infezioni del tratto urinario e casi di anemia. In più, ci sono stati anche casi di test di HIV e sifilide a donne vittime di abusi. Durante il corso della giornata, inoltre, vengono allestiti dei “taller” dimostrativi sul lavaggio corretto delle mani e dei denti soprattutto per i più piccoli, mentre alle signore si insegna l’importanza dell’igiene intima e dell’autopalpazione per una precoce diagnosi del cancro al seno. La partecipazione delle persone è massiva e questo ci rende felici. Non mancano i casi critici, quelli che necessitano di cure prolungate, anche in questo caso Apurimac Onlus si fa carico dei più bisognosi provvedendo ad eventuali cure pre e post operazione. Una delle cose che più mi ha colpito, durante una visita domiciliare, è stata la casa dove viveva una signora e suo marito non vedente. Immediatamente risalta all’occhio l’assenza di finestre e l’aria insalubre dovuta alla mancanza di spazi e alla presenza di numerosi animali in casa, come i “cuy”, porcellini d’india che vengono nutriti per poi essere mangiati. Anche in questo caso, l’assenza di igiene è palese e i sintomi sono quelli tipici di una parassitosi e dolori articolari propri di chi passa la giornata a lavorare nei campi. Le giornate scorrono lente sotto il sole fino a quando cala il gelo della notte e il cielo si riempie delle stelle luminose appartenenti a questa parte dell’emisfero australe. Si è pronti a ripartire e la trafila è sempre la stessa, caricare, partire e riscaricare.
Raggiungiamo quindi anche la comunità di Hamburque e di Huancane. Anche in quest’ultime l’accoglienza è calorosa e molto spesso riceviamo come segno di riconoscimento pannocchie e formaggio ma soprattutto i sorrisi della gente, il regalo più gradito. Riesco a passare quel poco tempo libero dal lavoro giocando, ballando e imparando il quechua (non sempre con grandi risultati!!) con i tanti bimbi andini che ci fanno compagnia durante il lavoro, bimbi dagli occhi scuri, neri, profondi come la notte. Sono spesso curiosi nel vederci, mi domandano dell’Italia, un Paese così lontano dal loro. Mi chiedono cosa mangiamo, che lingua parliamo, quanto costa un Kilo di zucchero. Immaginano com’è il mare ma amano le loro montagne, la loro terra a cui sono sempre molto devoti.
E adesso che sono qui davanti ad un monitor, alla presa con numeri, obbiettivi e rendicontazione la mia mente è immersa in quel caleidoscopio di colori, sensazioni e volti incontrati in questo cammino. Oltre la soddisfazione dei numeri portati a casa come più di settecento pazienti visitati e più di duecento analisi effettuate, mi porto dentro la semplicità e l’umiltà di un popolo e la solidarietà e l’amicizia dei miei compagni di avventura/lavoro, uniti per difendere i diritti di periferia, una periferia che è meno lontana di quanto si possa immaginare.
Teresa Baldoni
Laboratorista, volontaria in missione